giovedì 23 dicembre 2010

Ralstonia detusculanense

Un archeobatterio come biosensore e biodepuratore

L’archeobatterio Ralstonia detusculanense è stato scoperto nel laboratorio n.25 dell’INFN di Frascati nel 1999 da Colani e Quercia durante un esperimenti di fusione fredda, e caratterizzato biologicamente nei laboratori dell’ENEA. Il suo utilizzo, come biosensore e biodepuratore di specie radioattive, si basa sulla sua capacità di “cattura” (inglobamento) anche di quantità infinitesimali di sostanza. Si possono avere diversi sensori specifici (esempio per uranio, zinco, cadmio, nichel, cromo, mercurio) e contemporaneamente sono allo studio l’estensione dell’uso di questo batterio a tre dei più nocivi prodotti di fissione dei reattori nucleari (135Cs, 137Cs, 90Sr).

Le sostanze nocive vengono sicuramente elaborate. Infatti, ogni organismo che ingloba un altro, lo fa per trasformarlo, digerirlo e ricavarne energia. Una spiegazione plausibile risiede nella natura stessa dell’organismo: questo archeobatterio, essendo sopravvissuto in ambienti estremamente radioattivi e nocivi di miliardi di anni fa, potrebbe aver sviluppato sistemi biochimici per utilizzare (o nutrirsi di) radiazioni.

Un esempio di applicazione in campo nucleare (fonte: “Fusione Fredda Storia della Ricerca in Italia”) viene dalla Società Nucleare Elettrica Spagnola che ha comunicato nel 2005 di aver trovato un batterio tipo Ralstonia detusculanense anche nelle piscine di raffreddamento delle barre di combustibile esausto e ha applicato tale batterio per la bio-concentrazione di particolari metalli, nello specifico isotopi radioattivi: hanno applicato, con pieno successo, tale tecnica per la bio-concentrazione del 60Co ed hanno brevettato il processo a livello internazionale. Il loro lavoro scientifico è stato pubblicato su International Microbiology 8, 223-230 (2005). Recentemente (2007), sono in corso ulteriori studi per applicare questo batterio anche allo 90Sr, 135Cs, 137Cs, cioè a tre dei più nocivi prodotti di fissione dei reattori nucleari.


* Energia, Ambiente e Innovazione 6/2009 (bimestrale anno 55, nov.-dic. 2009, www.enea.it e www.fabianogroup.com)
1Libera Università L.U.de.S. Lugano (Svizzera), 2Associato INFN-LNF, Frascati, Roma, 3DIPIA-ISPESL, via Urbana 167, 00184 Roma


sabato 20 novembre 2010

La depurazione delle acque reflue in sistemi semi-naturali

Le crescenti esigenze della società moderna determinano un aumento costante nella richiesta di acqua, tanto che le fonti che ora assicurano il rifornimento idrico, fra breve non basteranno più. Si dovranno allora reperire nuovi giacimenti di acqua fossile o costruire enormi impianti di dissalazione dell’acqua marina, entrambe soluzioni dai pesanti oneri ambientali ed economici. Oppure, in alternativa, affidarsi al riciclaggio delle acque di scarico (“acque reflue” o “reflui”).

La raccolta e lo smaltimento delle acque reflue venivano sporadicamente attuati già nell’antichità, come testimoniano le fognature dell’agorà di Atene o la cloaca maxima della Roma imperiale, ma la prima valutazione sistematica del problema risale alla seconda metà del XIX secolo, quando il microbiologo Koch mise in luce come l’acqua infetta fosse uno dei principali veicoli di malattie. Da allora le acque di scarico non vennero più lasciate ristagnare in pozze putride, bensì smaltite sistematicamente verso i fiumi tramite imponenti reti fognarie. Ciò portò in breve all’inquinamento dei corpi idrici.
Inquinamento che col tempo è divenuto sempre più preoccupante, specie con l’avvento dell’industria che, oltre ad immettere composti sintetici recalcitranti alla degradazione naturale, ha aumentato notevolnte la richiesta d’acqua. In Italia le esigenze industriali sono arrivate ad incidere per circa un terzo sul prelievo complessivo d’acqua (Ghetti, 1993).



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